I bambini degli altri


Ufficiosamente / lunedì, Settembre 26th, 2011

Non è vero che odio i bambini.
Solo perché non li abbraccio e non pretendo che mi bacino quando mi vedono, solo perché penso che puzzino un pochino e siano come i piccioni, ovvero che portino un sacco di malattie, non è vero che sono come Erode. Del resto penso anche i piccioni siano i topi dell’aria, ed ho un’amica madre di tre figli che dice che “puzzano veramente molto”, ma questa è un’altra storia.
Non ritengo assolutamente che il mondo sarebbe meglio senza, anzi, io incoraggio tutti i miei conoscenti intelligenti a riprodursi, quelli un po’ stupidi sinceramente no, perché credo che la genetica non sia un’opinione.
Ammetto di avere un atteggiamento distaccato, per alcuni freddo, nel senso che non li prendo in braccio, tendo a parlarci solo se esplicitamente interrogata e non incoraggio le conversazioni delle mie amiche mamme che hanno come argomento delle prodezze tipo “La piccola si è tolta il pannolino da sola e ha usato il vasino” o “ Il piccolo diceva Puffupanda invece di Kunfu Panda, non sai che risate”. E’ più forte di me, non riesco ad appassionarmi a questi argomenti, agli intrighi scolastici, ai negozi di vestitini e scarpine.
Ma mi piacciono i giocattoli, per giocarci io naturalmente. E i dolci, i cuccioli e i cartoni animati. Ma non le giostre, girare in tondo mi fa venire la nausea. Quindi posso dire di condividere con i bambini degli interessi, eppure non li trovo interessanti.
Credo che sia perché li considero prima di tutto persone, e poi bimbi. Persone piccole ma pericolose. Questo perché hanno dei privilegi che io non ho. Primo fra tutti il fatto che sono il “futuro”, ovvero hanno davanti a loro più tempo di me, e quindi se faccio qualche cosa che non gli garba avranno più tempo per farmela pagare.
Poi perché essendo “bambini”, sono giustificati per ogni azione normalmente punita dal buon senso e dalla giurisprudenza. Se rubo un portafogli io sono una ladra, se lo fa una pupa di cinque anni è esuberante. Se strattono tutti i passeggeri di un autobus sono una pazza maleducata, se lo fa un gruppo di ragazzini in gita sono solo eccitati dalla novità e sanamente vivaci.
Quindi la diffidenza è il primo ostacolo che si pone tra me e queste piccole persone sotto il metro e trenta. A seguire c’è l’istinto di conservazione, perché ho scoperto che il bambino va sempre da chi si dimostra accogliente. E se mi dimostro accogliente, se gli permetto di guardarmi negli occhi ed instaurare un contatto visivo, è la fine: mi si attaccano addosso come dei polipi innamorati. Certi mi hanno lasciato i segni delle loro piccole dita tozze che premevano come manette sui miei polsi mentre le madri cercavano di staccarli da me.
In questa ottica, come diceva il padre autista di Audrey Hepburn nel film Sabrina “la vita è fatta come una macchina, ci sono i posti davanti, i posti di dietro ed un bel vetro in mezzo”. Ecco, io metto questo divisore trasparente e mi accomodo e non mi faccio intenerire dalle tenere manine che lasciano le loro minuscole impronte sul vetro sporcandolo tutto. Meglio sul vetro che sui miei vestiti.
Ma nonostante questo ho un sacco di amiche mamme che accettano di buon grado il mio non-rapporto con i loro figli, e che anzi ne sono rassicurate, perché parlare con qualcuno che non le consideri solo dei prolungamenti delle proprie creature ma delle persone autonome con delle possibilità di una vita oltre i quaderni scolastici ogni tanto secondo me fa bene.
Svolgo così anche io una funzione sociale in questa Società, sono la parte fuori schema che ricorda a tutti le linee dello schema generale. Poi un giorno l’orologio biologico chiamerà anche me e troverò un’altra amica che prenderà il mio posto. Oppure mi farò due gatti e continuerò ad evitare i parchi vicino alle scuole e le piscine con i corsi di nuoto.

5 Commenti a “I bambini degli altri”

  1. Giovanna Pimpinella è caustica come un foulard di seta e tagliente come quelle forbici che si usano per tagliare – o meglio provare a tagliare – le unghie dei bambini.

  2. Sono un fumatore, ed ho accettato che il fumo venisse vietato nei locali. Ai non fumatori può dare fastidio ed impedire il godimento della serata, per cui ritengo che sia giusto che io mi astenga, oppure che io usi una sala riservata.
    Ritengo anche che sia giusto impedire l’ingresso dei cani nei ristoranti. Infastidiscono, non sono igienici per cui è giusto, per rispetto degli altri commensali, che chi ha un cane lo lascia a casa, o vada in un ristorante dove è noto che si accettano i cani.

    La stessa identica affermazione si applica per i bambini. Sono fastidiosi, maleducati, indugiano in pratiche ributtanti ed hanno il potere di rovinarmi qualunque cena. Ma nessuno si azzarda, per motivi inspiegabili, a vietarne l’uso nei ristoranti e negli altri locali pubblici.

    Una volta, beati gli antichi, c’erano quelle bellissime epidemie che ne falcidiavano il numero e che risolvevano il problema. Al giorno d’oggi, putroppo, ho la fortissima sensazione che molte coppie completamente fallite abbiano invece il piacere di mostrare la loro prole come un trofeo, come a dire a tutti noi che qualcosa di buono nella vita sono riusciti a farla. E ce li impongono, incuranti delle leucemie fulminanti che quelli come me gli augurano con fervore ogni volta che li incontrano in un ristorante. Ma veniamo al fatto.

    Domenica sera ero a cena fuori. La riservatezza mi imponeva la scelta di un ristorante assolutamente fuori mano, con saletta privata e di dimensioni limitate, per limitare rischi di incontri imbarazzanti ed indesiderati. Arrivo quindi nel locale, e – grazie a sontuose mance precedenti – mi spediscono in una saletta che continene solo cinque tavoli. Quattro sono disposti lungo una parete con una vista mozzafiato sugli alberi e sulle montagne, e sono da due persone; il quinto, putroppo, è da quattro e si trova parallelo alla parete opposta. L’atmosfera è bellissima. Apparentemente rude, la posateria ad uno sguardo attento è di argento massiccio, i candelieri che sono su ogni tavolo sono di una delle ditte più sensibili al design dell’ultimo decennio, gli accessori sono disegnati da architetti di gusto. L’atmosfera è rilassante e la luce soffusa. Musica di sottofondo, con il piacevole mormorio dei commensali che discutono a bassa voce.

    Ad un certo punto, la catastrofe. Il tavolo da quattro, immagino per un mortale disguido o per un patto di sangue che lega il proprietario del ristorante ai nuovi avventori, viene occupato da una famigliola ributtante. Ornati di braccialetti d’oro a profusione e di orologi sontuosi, sono fastidiosi allo sguardo. Vestiti in maniera costosamente goffa, sono ributtanti non fosse altro per la loro sfasciata obesità accoppiata alla pelle abbronzata a mo’ di wurstel, probabilmente a causa di inappropriati viaggi in isole equatoriali, o in centri estetica con lampade da quattro soldi. Orbene, basterebbe questo a rovinare la serata, aggiunto all’abuso di stuzzicadenti (ma perché li mettono nei ristoranti?) che i due enfi figuri hanno compiuto già dall’antipasto, ma c’era ben di più: i loro figli.

    Infatti questi due deformi individui avevano con loro la degna prole: una bambina intorno ai quattro anni, ed un bambino intorno ai sei, di nome Enrico. I due, vociando in maniera intollerabile, dapprima hanno cominciato a tirarsi il cibo, poi a fare gargarismi con la coca cola ed ogni altra pratica schifosa vi possa venire in mente, poi a gridare la loro necessità di funzioni corporali istantanee, infine a correre nello spazio che c’era tra il loro tavolo ed i quattro tavoli da due persone. Gli occupanti di età maggiore di anni diciotto hanno cominciato a guardarsi reciprocamente, chiedendo ai camerieri di fare qualcosa: ma oltre ad un generico invito del tutto inefficace nulla veniva fatto.

    La serata stava prendendo una piega davvero pessima quando in mia salvezza è accorso “l’equipaggio” di uno dei tavoli da due persone. Erano due signore sui sessanta anni, elegantissime e silenziose. Mentre Enrico stava correndo per l’ennesima volta nella totale impunità, un piedino delizioso ricoperto da una decoltè nera (probabilmente di Ferragamo) si è sporto da sotto il tavolo, facendo un piccolo ma micidiale sgambetto al fanciulletto. Il miserello ha avuto molto velocemente alcune lezioni che gli torneranno utili nella sua lunga vita. La prima è che, quando si corre, bisogna pure sincerarsi che non ci siano ostacoli improvvisi; la seconda è la conoscenza diretta e dolorosa della legge della gravitazione universale formulata da Isacco Newton: la terza è l’esperienza personale di quanto il marmo sia un materiale molto duro, decisamente più duro del corpo umano così come della dentizione decidua. Infatti il povero Enrico, che tutto si aspettava meno un vile tranello, è piombato di faccia sul pavimento senza accennare neanche ad un moto di difesa, baciando appassionatamente le mattonelle di marmo grigio che ricoprono il pavimento del locale e dimenticando – nell’impeto della passione – un dente da latte sul pavimento.
    .
    Il padre, girato di spalle, si è voltato stupito verso il figlioletto insanguinato; la madre, invece, ha intuito che qualcosa di storto era successo ed ha cominciato a gridare come una ossessa. Prima di tutto ha preteso che fosse chiamato il 118 (ben le sta: così le ferite del figlio saranno aggravate da qualche medico incompetente); e poi ha cominciato a minacciare gli astanti, affermando che qualcuno aveva fatto lo sgambetto al figlio. Naturalmente, siccome tutti i commensali erano felicissimi che la seccatura fosse di colpo finita, visto che la gravità non trascurabile delle ferite al volto del piccolo palesemente non consentivano la prosecuzione della cena alla Famigliola Obesa se non nell’astanteria di un Pronto Soccorso Ospedaliero, il gruppo si è chiuso in una strettissima omertà, affermando con una sola voce che il poverino era inciampato sul suo piede, ed interpretando le parole da egli farfugliate attraverso le gravi ferite della rima buccale come derivanti dallo spavento. La madre non si era proprio convinta, e come una furia gridava giurando vendette legali, e accanendosi contro le due signori elegantissime che non la guardavano neanche di lato, come se proprio non fosse esistita. Vista la mala parata, ha cominciato a chiedere a tutti gli astanti il nome e l’indirizzo per citarli come testimoni in un prossimo processo.

    Io sono stato molto felice di darle tutti i miei riferimenti fiat iustitia, pereat mundus: ma purtroppo in un momento di distrazione le ho dato – invece del mio – nome, telefono ed indirizzo di un conoscente impiccione che qualche settimana fa mi aveva incontrato dove non dovevo essere ed aveva prontamente riferito alla popolazione intiera di avermi visto. Voglio proprio vedere come spiegherà alla moglie la sua presenza in quel luogo. Mi dispiace solo che diranno che era insieme ad una mora di tutto rispetto, che un fesso come lui mai potrebbe avere nella realtà.

    Manlio

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