La Favola del Ferragosto per festeggiare i 5 anni


Ufficiosamente / giovedì, Agosto 4th, 2016

5Sono passati 5 anni da quando ho aperto questo blog, e sono successe un sacco di cose, belle e brutte. Ho deciso di festeggiare questo anniversario con la pubblicazione di un racconto che parla delle mie radici.

Come sarebbe la favola di Charles Dickens “Canto  di Natale” ambientata a Ferragosto e per di più in Terra di Lavoro nei primi anni del Novecento?

Se siete curiosi allora leggete questa storia, un po’ lunga per i miei standard, ma che troverete a breve anche in formato e-book, perchè i regali o si fanno bene o non si fanno.

Buona lettura

Favola di Ferragosto

di Giovanna Pimpinella

Don Vito guardò il mare, era lucido sotto i raggi del sole delle sette del mattino e azzurro pallido, perché l’alba non aveva ancora ceduto del tutto il passo al giorno. Si lasciò sfuggire un mezzo sospiro mentre dal mare passò al panorama della vallata che si stendeva sotto di lui. Guardava i campi coltivati, le file ordinate di ulivi, le stradine sterrate che li attraversavano e arrivavano alla litoranea, parallela alla linea del mare e a quell’ora altrettanto lucida. Gli occhi caddero su un altro oggetto lucido perché nuovo, l’intonaco del palazzo che affacciava sul mare e che lui aveva fatto costruire in modo che fosse in linea d’aria dritto davanti al suo sguardo quando si affacciava dalla sua terrazza della casa in paese.

– Il caffè.- disse alle sue spalle la voce asciutta di Titina, e si sentì un rumore secco di vasellame che cozza. Lui si voltò verso la cameriera, piccola, anziana, con le mani incrociate sul ventre magro ma con due occhi neri che lo fissavano con un sguardo che non riusciva a contenere la stizza. Uno sguardo che lui ricambiò senza timore aggiungendo un gesto della testa che voleva dire “Ho capito, te ne puoi andare.”

Prese la tazzina e si portò il caffè alle labbra stando attento a non insozzare i baffi, non mise zucchero perché lo zucchero costava e faceva pure male alla salute, ma soprattutto costava, e secondo lui era un lusso inutile.

Sorseggiò la bevanda calda tornando a guardare il mare e godendosi quella brezza mattutina che sarebbe sparita nel giro di pochi minuti. Certo, al paese non avrebbe fatto caldo come al mare, era il 14 di agosto del 1911 e non poteva pensare di scendere a buttare sudore per verificare quello che facevano i mezzadri, ma sapeva che era suo dovere e che se non lo avesse fatto nessuno gli avrebbe ridato indietro il denaro che quei disgraziati avrebbero potuto fargli perdere. Il suo denaro. Istintivamente buttò un occhio verso l’armadio di ciliegio scolpito, il rifugio segreto di una parte del suo contante, ma subito distolse lo sguardo, temendo di essersi tradito anche se era solo, infatti aveva sempre paura di essere spiato per poi essere derubato.

Finì di un fiato il caffè ignorando il gusto amaro del fondo e pensando “Fiele”. Con l’ennesimo sospiro si decise a muoversi, lo attendeva un’altra calda giornata di lavoro e non poteva immaginare che l’indomani tutto si sarebbe fermato per quella stupida festa di Ferragosto. La festa della Madonna dell’Assunta, quando tutto e tutti si sarebbero fermati tranne lui, che non aveva nessuna intenzione di festeggiare, ecco perché Titina lo guardava come fosse un assassino di bambini.

Erano le sei del pomeriggio, le bestie stremate dal caldo e dal sole cercavano un po’ di ombra sotto gli alberi bassi di mele mentre le cicale frinivano talmente forte da muovere l’aria, o almeno dare quell’impressione a Don Vito. Questi si asciugava la fronte con il fazzoletto, ormai inservibile per quanto era bagnato di sudore, mentre bestemmiava, ma solo mentalmente, contro il mezzadro che aveva davanti.

-Quindi mi dite che non volete lavorare domani? – era una domanda, ma posta come una maledizione, stava succedendo una cosa per lui inconcepibile, una rivoluzione davanti ai suoi occhi: gli operai non volevano lavorare, o meglio, non volevano lavorare a Ferragosto.

– Che la Madonna mi sia testimone, Don Vito, non è che noi non vogliamo lavorare, noi non possiamo lavorare. Ma non si ricorda che domani è Ferragosto? C’è la processione, la messa sopra al santuario, bisogna onorare la Madonna, non è che siamo noi a non voler lavorare è Lei che ci chiede di festeggiarla.

Per un attimo Don Vito sentì come un ronzio nelle orecchie, pensò che caldo e arrabbiatura gli avrebbero fatto venire quel colpo che molti, in paese, gli auguravano, quindi si spostò verso l’ombra dando una manata ad un asino, manata che alzò un nugolo di mosche assolutamente non gradito, e si concesse un attimo per riprendere fiato.

Il mezzadro lo seguiva in silenzio, aveva il cappello tra le mani e il fazzoletto al collo, così scamiciato e sbottonato era combinato peggio di lui.

– Se la Madonna avesse voluto che faceste festa non avrebbe fatto maturare i pomodori prima. Se non continuiamo a raccogliere domani perdo mezzo raccolto, vi rendete conto? I pomodori non lo festeggiano Ferragosto! – aveva ricominciato ad urlare, e sentiva la vena sul collo che gli pulsava. Si impose di calmarsi non perché volesse mantenere un contegno consono al suo rango, ma perché sia suo padre che suo nonno erano morti in agosto, e lui aveva sempre pensato che il destino fosse ereditario. Anche Nino, il suo socio morto l’anno prima, era venuto a mancare proprio per un colpo ad un chilometro da dove si trovava ora, proprio la notte di Ferragosto, e forse anche per quello lui quell’anno non voleva proprio festeggiare.

Ed ora aveva la scusa dei pomodori. Erano due giorni che cercava di convincere i contadini a lavorare il giorno di festa, la stagione era stata secca e calda, le piante avevano fruttato prima e ora bisognava raccogliere in fretta prima che si perdesse tutto. Anche se erano a buon punto, non potevano interrompere sul più bello, era un danno che non si voleva e poteva permettere.

Fissò quell’ingrato di un ignorante che lui manteneva e che domani si sarebbe mangiato un capretto con le patate mentre i suoi pomodori marcivano e si ficcò il fazzoletto in tasca. Trovò la giusta freddezza perché era il caso di rimettere ordine.

– Forse non ci siamo capiti Carmine: se non lavorate domani non lavorate più, vi lascio tutti a casa, anzi vi tolgo pure la casa. E il primo che si ritrova senza neanche gli occhi per piangere sei tu.

– Don Vito, ma perché fate così? – l’uomo aveva fatto un passo indietro e si era portato le mani al volto sempre stringendo il cappello, non era mai stato un tipo aggressivo, aveva avuto solo la sfortuna di pescare il fiammifero più corto nel sorteggio per parlare col padrone.

Quando don Vito aveva mandato il nipote a dire che avrebbero lavorato tutta la settimana, tutti si erano agitati, le donne erano andate a parlare con il parroco, ma gli uomini si erano organizzati e poiché nessuno voleva averci a che fare, col padrone, avevano deciso che comunque qualcuno si doveva esporre per risolvere questa pazzia di lavorare in una festa comandata.

– Il lavoro lo recuperiamo il 16, non è una situazione così grave. – ma le parole gli morirono in gola quando vide quei due occhi da demonio diventare come due piccoli pezzi di brace, luminosi in quell’aria estiva, e fissarlo come a volerselo portare direttamente all’inferno.

– Avete ancora il coraggio di rispondere? – disse secco, sembrava diventato di due metri, scuro grosso e furibondo. – Carmine, se domani mattina non vi presentate a lavorare io vi licenzio tutti e faccio venire a lavorare quelli di Gaeta, che hanno fame veramente e si fanno 20 chilometri a piedi per 8 lire l’ora. Voi mangiate con la terra mia e non vi permetterò di rovinarmi per fare i vostri comodi!

Detto questo si girò secco e si diresse al calesse, senza concedere all’uomo il tempo di dare una replica che comunque non possedeva.

Erano le nove di sera, la brezza del mattino era tornata in versione notturna, insieme alla tazza di caffè, vero unico lusso che si concedeva Don Vito, ora seduto invece che in piedi. Con la tazzina a mezz’aria vedeva la notte che si ingoiava il giorno e si chiedeva che sarebbe successo l’indomani. Era venuto pure il parroco, don Igino, a chiedere notizie di questa “Voce che si era diffusa che lui voleva far lavorare i suoi contadini nel sacro giorno dedicato alla Madonna”, e lo aveva detto mentre si succhiava una tazza di caffè che gli aveva portata Titina e che lui non aveva ordinato. Ci aveva messo pure tre cucchiaini di zucchero l’infame.

Anche là l’uomo si era salvato per la tonaca che portava, ma non perché Don Vito non volesse dare scandalo, era uno scapolo austero e taciturno che non capiva il senso dei pettegolezzi e quello che non capiva non lo interessava, ma perché era superstizioso, e toccare un prete secondo lui portava sfortuna.

Quindi gli aveva spiegato, con tono fermo e senza sorridere, che non poteva permettersi di perdere i pomodori, era stato un anno difficile e sarebbe stato un danno pericoloso per tutti. Era infatti proprio per responsabilità verso i suoi lavoranti, ignoranti e sfaticati, che lui li costringeva a lavorare, altrimenti non avrebbero più avuto di che mantenere le loro troppo numerose famiglie. Il prete aveva iniziato un panegirico sulla misericordia divina e sulla fede che viene premiata quando era arrivato suo nipote a salvarlo, ma del tutto involontariamente, sia ben inteso.

Enzo era un ragazzo di circa trent’anni, sposato con una ragazza di Formia che Don Vito non poteva soffrire, che figliava anche lui come un coniglio, visto che era arrivato al suo quarto bambino. Enzo era il suo unico parente in vita, alcuni credevano che sarebbe stato il suo erede, ma Don Vito aveva intenzione di campare ancora molto allungo e non era molto sicuro che avrebbe lasciato qualcosa al debosciato.

Era infatti un giovane che non lo soddisfaceva per nulla. Sorrideva troppo, con tutti, non solo con lui. Era sempre disposto ad ascoltare, perdeva tempo nelle chiacchiere di tutta quella gente che si andava a lamentare dei propri problemi e poi passava sempre a chiedergli un favore per quella vecchia vedova che non sa di che campare e gli avevano tolto la casa, per quel giovane che aveva perso una gamba cadendo dall’impalcatura ma era intelligentissimo e sarebbe stato un bravissimo ragioniere se lo si faceva studiare o la dote di quell’orfana … era un continuo con quella mano tesa, ma mai per lui, per gli altri. E a forza di pensare agli altri lui faceva la fame come tutti, campando di un misero vitalizio che gli aveva lasciato la buonanima della madre e di qualche lavoro di scrittura che faceva per il giornale ecclesiastico che lo zio distribuiva in tutte le parrocchie d’Italia.

Ma in quel frangente Don Vito fu felice di vedere il giovane, che gli forniva una buona scusa per cacciare quel corvo nero e quindi, adducendo gravi questioni di famiglia, lo accompagnò personalmente alla porta, anche perché Titina sembrava sparita.

Enzo prese subito la palla al balzo appena furono soli.

– Veramente carissimo zio, ero venuto a parlarti di cose gravissime, come hai fatto a saperlo?

Don Vito si portò sulla terrazza, aveva sempre più bisogno di aria fresca in quei giorni e lasciò che il nipote gli venisse dietro.

– Veramente non lo sapevo, – gli fece involontariamente il verso – era una scusa per mandare via il corvo nero.

– Don Igino è tanto buono zio, non lo dovreste trattare ingiustamente…

– Allora sei venuto a parlarmi di giustizia?

Il nipote rimase un attimo in silenzio, come a ripassare mentalmente un discorso che si era preparato. – E’ venuto da me il tuo mezzadro Carmine Macaluso … – ma lo zio non lo fece finire, alzò la mano con gesto perentorio e lo zittì immediatamente.

– Non ci provare proprio questa volta Enzo, se ti metti a difendere quei debosciati che tramano per la mia rovina e la rovina pure tua, della tua famiglia, te lo dico subito è la volta buona che non solo ti diseredo, ma ti tolgo anche il lavoro al giornale. – Enzo si fece sfuggire un sospiro e si appoggiò sul parapetto, spalle al paesaggio del golfo per guardare lo zio.

– Ma zio, non lo capite che facendo così sembrate la creatura più orribile della regione? Rischiate di scatenare una rivolta! I contadini non sono più quelli di cinquant’anni fa, ora si parlano tra loro, si organizzano, già si lamentano dei salari, che sono i più bassi del paese, poi delle ore che li fate lavorare, ora gli volete togliere la festa comandata! Alla Madonna poi, che é la mamma di tutti…

Don Vito era stanco di discutere, per un attimo pensò che la sua vita era diventata una continua litigata, eppure non si era sposato apposta! Per non avere qualcuno che gli dicesse di continuo cosa fare, che lo rimbeccasse, che lo controllasse. E invece era finito comunque ostaggio degli sguardi ostili della cameriera, delle lamentele del parroco, delle richieste del nipote, per non parlare di tutti quei miserabili che lo magnavano vivo ogni giorno e che dimostravano la loro gratitudine rivoltandosi contro di lui, aizzandogli tutto il paese addosso.

– E smettila! – lo apostrofò lo zio che a sentire la Madonna come mamma di tutti si era strozzato sul fondo del caffè freddo che aveva visto nella tazzina del prete e aveva deciso di finirsi, era uno spreco, con tutto quello zucchero. – Non mi convinci, domani chi non si presenta a lavorare non lavora più nella mia terra. Se i contadini sono cambiati la fame é sempre la stessa, e i padroni sono sempre i padroni. Io occupo la mia posizione non solo perché mi ci ha messo la fortuna, ma perché l’ho saputa mantenere. Tu dovresti portarmi ad esempio, trattare la gente come la tratto io, dovresti smetterla di fare il prete, hai quattro figli, lo dovresti fare per loro! – ancora una volta gli aveva detto quello che pensava della sua tenuta debosciata, ma Enzo non sembrò scomporsi. Fece un sospiro accompagnato come da un gesto di rassegnazione, stendendo le braccia lungo i fianchi, guardò il palazzo sul mare, una finestra era illuminata nell’oscurità che stava scendendo, e poi lo zio.

– Zio caro, – e tiro fuori un altro sospiro – la carità cristiana deve essere sempre ripagata, se non in questo mondo, nell’altro. Se voi non siete fiero di me so che lo é la povera mamma che mi guarda da lassù e mia moglie, che il Signore me la conservi il più a lungo possibile. Quindi non temete, io sono felice, e vorrei che lo foste pure voi. Pensateci stanotte, siete ancora in tempo per rimediare a questa pazzia, perché così vi considerano tutti, un pazzo eretico.

E detto questo prese la porta e sparí nel corridoio buio.

Don Vito era rimasto senza parole davanti alla sfrontatezza del giovane, era allibito da come le persone avevano iniziato a trattarlo, senza il rispetto che gli dovevano, a lui che li manteneva tutti, a lui che, da quando era morto Aldo, doveva gestire tutto e provvedere che ci fosse un piatto davanti alla bocca di ogni scansafatiche. Su poi quanto fosse pieno quel piatto era un’altro paio di maniche, del resto mangiare tanto non era sano, accorciava la vita, lo sapevano tutti.

A questo pensava mentre scansava l’ultima tazzina di caffè della giornata. Diede un’ultima occhiata anche lui al golfo e al suo palazzo, guardò la finestra in cui faceva accendere una candela così avrebbe potuto individuarlo pure di notte, anche se non ci avrebbe mai abitato, e decise che era meglio andare a dormire, perché tutti lo avevano stufato.

La pendola batté la mezzanotte. Sarebbe stata una cosa normale se quella pentola avesse dato i rintocchi, ma don Vito era talmente avaro che riteneva pure quello uno spreco, a lui bastavano le campane della chiesa. Campane che invece non suonarono, come notò una parte del suo cervello ancora insonnolito. Fece un sospiro e si stiracchiò preparandosi ad archiviare il rumore come un sogno che gli aveva fatto sentire una cosa per un’altra, ma mentre si girava e richiudeva gli occhi un altro rumore, più forte, più netto, e proprio davanti alla sua porta chiusa lo fece sobbalzare. Era un rumore metallico e freddo, fortissimo e rimbombante, come di ferro sbattuto sul pavimento, che tremava ad ogni colpo.

L’uomo rimase seduto sul letto a sentire quei colpi che ora scuotevano anche la sua porta, e fu preso da un’incontrollabile terrore, mentre un freddo improvviso riempiva la stanza e gli trasformava il respiro in nuvolette basse e dense.

– Chi é?- chiese augurandosi di non aver risposta, ma ricevette invece un’altra scarica di colpi metallici sul legno di castagno.

Ancora una volta la paura di prendersi un accidente ebbe il sopravvento, poi don Vito acquistò un attimo di lucidità e si rese conto che non poteva essere altro che uno scherzo proprio per spaventarlo a morte. Magari era quel delinquente di suo nipote, o Titina aveva dato le chiavi a qualche mezzadro per fargli anche lei dispetto, lo odiava ormai e questa storia dell’Assunta era stata la classica goccia che fa traboccare il vaso. Sperava non fosse un ladro, altrimenti gli avrebbe dato il fatto suo.

Così spostò il lenzuolo con uno scatto, scese dal letto e si risolse ad aprire la porta, dopo aver imbracciato il fucile che aveva, appunto, sempre sotto il materasso.

Con una mano strinse il freddo metallo dell’arma, che gli infondeva una tranquilla sicurezza, e con l’altra girò di scatto la maniglia.

Ma il fucile gli cadde di mano mentre come una tromba d’aria lo scaraventava indietro, facendolo sbattere al letto, e gli riempiva come di nebbia la stanza.

Ma la nebbia si diradò subito e lui non trovò niente di meglio delle sue lenzuola a cui aggrappassi mentre rimaneva gelato dall’orrida visione che aveva davanti.

Era Nino, il suo socio morto l’anno prima, ancora chiaramente morto, e chiaramente fantasma. non poteva essere altrimenti visto che era avviluppato da catene roventi, un evidente tormento infernale, con il volto bianco in modo innaturale, solcato da sottili vene azzurre che pulsavano in modo frenetico.

– Nino!- l’unica cosa che riuscì a dire don Vito, mentre si stringeva ancora di più alle lenzuola, come potessero fare da scudo a quella visione infernale che lo fissava con occhi bianchi e orribili.

– Vito, pentiti! – disse senza muovere le labbra sottili e blu. – guarda cosa é successo a me, strappato alla vita senza preavviso. Non ho potuto redimere i miei peccati e ora sono condannato ad un tormento eterno, senza speranza. Vito pentiti!

Don Vito rimase atterrito e sorpreso, lui che all’inferno non aveva mai creduto, ora ne vedeva un pezzo davanti e non sapeva cosa dire.

– La Madonna, nella sua infinita misericordia, mi ha mandato qui questa notte ad avvertirti, riceverai la visita di altri tre fantasmi questa notte, uno ogni ora. Loro ti faranno vedere cose fantastiche e impreviste, dal passato al futuro, e tu dovrai decidere che cosa hai intenzione di fare della tua vita di avaro. Perché tu sei come me: avaro di beni e avaro di sentimenti e guarda – alzò le catene e iniziò a scuoterle – guarda che cosa ti succederà se non mi ascolti.

Don Vito si svegliò in una pozza di sudore. Era stato un sogno, guardò la porta illuminata dalla luna ed era chiusa come l’aveva lasciata. Cercò di riprendere un respiro regolare tastando sul comodino per prendere la brocca d’acqua e poi decise che poteva accendere un po’ la candela, era un’emergenza. Poi vide un brilluccichio sul pavimento e fu preso da un sussulto. La canna del suo fucile brillava alla luce della luna sul pavimento, dove era caduta in quello che non era più sicuro fosse un sogno.

Ma non fece in tempo ad alzarsi per raccoglierlo che la terribile pendola che già aveva sentito rintoccò l’una di notte. Un unico potente battito, come lo sparo del fuoco d’artificio che chiude lo spettacolo.

Gli si spezzò il respiro e si girò verso la porta mentre un rinnovato e gelido silenzio riempiva l’aria. E proprio a metà di un respiro sentì un leggero bussare alla porta.

Era un tocco quasi timido, da mano piccola ed educata, magari neanche sicura di stare bussando nel posto giusto.

Lui rimase immobile, era in pratica accovacciato sul letto, le coperte bagnate attorcigliate intorno al corpo come un’armatura umida. Ma il rumore non cessava, anzi, iniziava a diventare impaziente.

Allora si risolse a parlare e chiedere, con una voce spezzata:

– Chi é?

Non ottenne risposta, ma vide la maniglia girarsi lentamente, diventare quasi più grande, poi la porta schiudersi e dietro di questa, dal buio, sentì una vocina leggera:

– É permesso?

Il terrore fu sostituito dalla sorpresa quando vide la strana apparizione che gli si portò davanti con passetti piccoli e silenziosi.

Al posto di una immonda creatura infernale si era presentata al suo uscio una piccola bambolina vestita da pacchiana, ovvero una donnina alta forse un metro e quaranta con l’abbigliamento tipico della festa per le donne della zona. Aveva una gonna nera con sopra un grembiule rosso ornato da un nastrino d’oro, una camicia bianca tutta sbuffi e creolina, ed un copricapo che si chiamava ‘tovaglia’, ovvero un telo talmente tanto inamidato da diventare rigidissimo e da essere piegato a sembrare una sorta di scatola che copriva i capelli, questi ultimi pettinati con due grandi trecce nere arrotolate ai lati delle orecchie.

Nel suo insieme era di una bellezza commovente, emanava una sorta di luce diffusa e lo guardava sorridente. Poi quando parlò un nuovo tepore sembrò fendere quel gelo umido che aveva riempito la stanza ed arrivare dritto al cuore del vecchio.

– Buona sera Don Vito, sono il fantasma dei Ferragosto passati, mi stava aspettando vero?

– No, cioé si. – rispose lui esitante ricordandosi il quell’istante la terribile visita dell’amico.

– Allora mi dia la mano, Don Vito, abbiamo solo un’ora e il passato é sempre tanto. – il fantasma allungò la manina piccolissima facendo tintinnare una lunga fila di bracciali d’oro che le occupava tutto il polso e lui non poté fare a meno di accogliere l’invito, si protese in avanti e toccò le dita tiepide.

Le dita si chiusero sulle sue e don Vito fu trasportato in un istante lontano dal suo letto, dalla sua stanza e dalla sua casa. Fu come entrare in un vortice, per alcuni secondi fu avvolto da un banco di nebbia che gli roteava intorno, poi di colpo le nuvole sparirono e si ritrovò, con la mano stretta ancora alla pacchiana, ma in un’aia assolata.

Fu travolto dalla luce del sole, che gli ferì gli occhi, poi dalle cicale e dai grilli, che invece riempivano festosi l’aria, e si sentì tirare la mano ricordandosi che non era solo, il fantasma gli stava parlando.

-Ma che bambino carino che era. – disse lei indicando un bambino che faceva rotolate un cocomero grande quasi quanto lui al centro dello spiazzo.

Don Vito rimase a fissarlo, aveva qualcosa di familiare, quel naso, quella camiciola bianca bucata sulla manica, e quel cocomero, anche.

– É uno dei figli di mio nipote? – chiese più a se stesso che alla compagna, che gli rispose con una risatina sottile.

– O no, guardate meglio, non vi ricorda niente? guardate meglio! – lo esortò spingendolo in avanti.

Lui si trovò davanti il bambino, che non sembrava averlo visto, intento com’era a trascinare quel cocomero non era ben chiaro dove.

– E tu chi sei?- gli chiese più che altro per far contenta quella bella pacchianella, perché lui non era poi così interessato a saperlo, mentre si rendeva conto che l’aia era quella della sua masseria, e che forse quel cocomero era suo.

Il bambino non rispose, ma lo superò senza guardarlo, era arrivato quasi ai limiti dello spiazzo ed aveva anche tirato un calcio ad una gallina che si era messa sulla sua strada.

– Piccolo maleducato! – gli apostrofò dietro, ora irritato per essere stato così palesemente ignorato – Vieni subito qui e riporta quel cocomero che sicuramente non ti appartiene!

E gli sarebbe corso dietro già pronto a dargli qualche sculaccione se il fantasma non lo avesse fermato prendendolo con mano sorprendentemente salda per una manica.

-Non vi adirate don Vito, non può sentirvi, noi stiamo vedendo cose già successe, noi siamo nel passato.

L’uomo tornò a fissarla, poi si guardò ancora intorno e comprese perché quell’aria familiare.

– Non é il figlio di mio nipote quello? – chiese sapendo già la risposta.

– No, guardatelo meglio. – e accompagnò l’esortazione con un sorriso.

E così don Vito si riconobbe, bambino, otto anni per la precisione, un po’ piccolo per la sua età, ma in seguito si sarebbe ripreso e sarebbe diventato il più alto in famiglia. E come si riconobbe ricordò anche l’episodio.

– É quel Ferragosto che papà mi ha picchiato. – disse piano.

Suo padre non era come lui, era peggio. Se i suoi contadini si lamentavano che mangiavano poco, quelli del padre erano talmente deboli per gli stenti che non ce la facevano neanche a lamentarsi. Quel Ferragosto lui aveva rubato un cocomero per regalarlo alla famiglia del suo migliore amico, il figlio di un mezzadro che lavorava nella loro masseria, e che non se la passava tanto bene. Il padre lo aveva beccato proprio dietro quell’angolo, dove si stava dirigendo, e a niente erano valse le scuse, si era preso tre cinghiate che ancora se le ricordava.

– Tu volevi solo fare del bene. – disse con una punta di tristezza il fantasma, come gli avesse letto nella mente.

– Aveva ragione mio padre. – rispose lui di rimando, ma con un tono non troppo convincente, sentiva veramente in bruciore della cinghia sulla schiena, e si affrettò a girare la testa perché in quell’attimo aveva girato l’angolo e sarebbe scoppiata la tragedia.

La pacchiana non aggiunse commenti, gli riprese la mano mentre si sentivano le prime urla del padre ed in un attimo tutto fu avvolto nella nebbia, ancora il vortice e poi di nuovo fu avvolto dal canto dei grilli, ma non era giorno, era notte.

Si sentivano i grilli e saliva una dolce aria di mare, si ritrovò sul porticciolo romano, sempre con il piccolo fantasma che gli teneva la mano, e guardava un mare bellissimo ed un cielo pieno di stelle.

Non ebbe bisogno di tempo per ricordare dove fosse. Era il Ferragosto del 1881. Vide due ombre sedute sul bordo del molo, che si staccavano dopo un bacio.

– Devo ringraziare tua cugina. – diceva lui bisbigliando. – ci ha fatto un gran regalo per Ferragosto.

– Parla piano che se ci scoprono finiamo tutti e due scorticati. – rispose lei in un sussurro che tradiva un certo divertimento.

Aveva vent’anni e quella che baciava non era la sua fidanzata. Non lo era perché non si risolveva a chiederglielo. Anna Lucciola era troppo bella per lui, figlia del medico condotto, aveva una fila di spasimanti che arrivava fino a Gaeta. E una brutta reputazione forse proprio per quello. Reputazione che doveva avere dei fondamenti visto che lei era di notte, in un luogo buio e isolato, con un ragazzo.

Ma era così bella!

Don Vito sentiva ancora l’odore salmastro della notte e pensava che quella sarebbe stata la notte giusta.

– E perché non glielo chiese? – la voce dolce rimbombò in quel silenzio di baci e lo fece sobbalzare. Don Vito si voltò a guardarla e si sentì all’improvviso stanco, travolto da un rimpianto che fino a quel momento era riuscito a chiudere in qualche stanza segreta del cuore.

– I miei genitori non volevano, non aveva una buona reputazione…- le parole gli morirono in gola, mentre sentiva che gli pizzicavano gli occhi, insieme al gusto salato della brezza del mare che gli si posava sulle labbra.

La pacchiana lo guardò con pena ed affetto, si mise sulla punta dei piedini ed arrivò alla sua guancia, che baciò piano, don Vito sentì come un soffio di vento tiepido e si ritrovò nella sua camera da letto, non c’era più il porticciolo, non c’era più il mare, non c’era più Anna.

Era ancora notte fonda, il vecchio sentiva le labbra secche, si guardò intorno sempre più smarrito, erano anni che non pensava alla sua giovinezza, a suo padre, all’occasione persa, perché ormai poteva ammetterlo, era stata un’occasione che avrebbe cambiato tutta la sua vita. Aveva saputo poi che Anna si era sposata con un giornalista di Roma, che aveva avuto due figlie femmine ed era morta per un incidente mentre tornava a trovare il padre. Se fosse stata sposata con lui non si sarebbe trovata su quella strada e non sarebbe morta.

Ma non poté dedicarsi ancora a quei pensieri tristi che sentì nuovamente battere alla porta. Questa volta non fu un battito leggero, ma molto maschio, deciso, che non ammetteva esitazioni, così raccolse il suo orgoglio di uomo fatto e finito, tirò fuori il petto e disse, tenendosi però sempre con una mano alla colonna del letto:

– Avanti. – con il tono più deciso che poteva.

La porta si aprì come spinta dal vento, ma non entrò nessuno. Don Vito rimase con il fiato sospeso poi, vedendo che non succedeva niente, si avvicinò e guardò nel corridoio. Niente. Poi intravide una luce nel salotto e quando vi giunse si trovò davanti ad un’altra visione straordinaria.

Nel suo salotto c’era un carretto, ma non un carretto qualunque, era quello addobbato a festa, tutto colorato ed intarsiato, che si usava per portare la Madonna in processione. Alla guida c’era un signore dagli occhi piccoli e la faccia rugosa, con al collo un fazzoletto colorato e pieno di frange, che si toccò il capello in segno di saluto e parlò con un forte accento.

– Sono il fantasma del Ferragosto presente, salga Don Vito, che le farò vedere cosa accadrà oggi.

Don Vito ingoiò a vuoto e si avvicinò al conducente, che gli fece cenno con il capo di no, poi indicò dietro, il trono vuoto della Madonna.

– Mi sembra un po’ troppo. – disse con un filo di voce, quella figura lo intimoriva quasi quanto il fantasma di Nino, nonostante non avesse niente di particolare, tranne stare con un carretto e un cavallo tutto bardato in casa sua.

– Ora vi intimorite per la Madonna? – disse il cocchiere con tono derisorio. – state tranquillo, ve lo manda lei questo viaggio.

Don Vito non se la sentì di replicare, quindi si arrampicò, con un po’ di difficoltà, e si sedette sul trono dorato. non fece in tempo a guardare la stanza da quella nuova prospettiva che la nebbia, ormai familiare, lo avvolse, e lo portò in un vicolo.

C’era odore di soffritto e di capretto per la strada, faceva un caldo fortissimo ed il sole era alto.

Il fantasma gli indicò di guardare da una finestra dentro una casa al piano terra.

Don Vito scese dal carretto con la stessa fatica con cui era salito e guardò oltre le tendine all’uncinetto. C’era una donna di spalle che stava mettendo una tovaglia e che parlava con suo nipote, era casa di Enzo. In quel momento si accorse si non essere mai andato a casa da lui. Quella doveva essere la moglie.

– E tu ora vuoi andare ad invitarlo a pranzo?- diceva lei con quella voce stridula che don Vito odiava.

– Marina, non fare così, é Ferragosto! É l’unico parente che ho, non importa che cosa pensa la gente, non é così cattivo come sembra.

– Non é cattivo? Oggi alla messa hai visto che c’era la metà della gente? Di Ferragosto, stavano lavorando perché altrimenti li licenziava tutti! Gli ha tolto la festa comandata! Ti rendi conto dell’affronto alla Madonna?

A sentire che erano andati a lavorare don Vito ebbe un sussulto di gioia, aveva vinto lui, per un attimo si distrasse dalla conversazione e perse alcune frasi, poi ricominciò a sentire.

– E che parente é uno che non si interessa all’unico nipote che ha? Che gli dà uno stipendio da fame e lo sfrutta facendogli fare il segretario non pagato? Ha mandato te a dire che si doveva lavorare oggi o no?

– Si, ha mi ha chiesto il favore, appunto perché sono il nipote e solo io potevo aiutarlo…

– E visto che sei il nipote perché non pensa pure a Giovannino? – lo interruppe lei, sempre più acida. Don Vito sentiva crescere l’antipatia per quella femmina, poi il nome Giovannino gli fece scattare una piccola scintilla nella testa, chi era? Aveva un vago ricordo dei nomi dei figli di Enzo, che non vedeva mai appunto perché si sarebbe dovuto subire anche la moglie, e gli pareva fosse il penultimo.

– Non se lo ricorda Giovannino? – gli disse il cocchiere, all’improvviso al suo fianco, facendogli fare un salto per la sorpresa.

– Veramente no…- gli rispose mentre tornava a sbirciare dentro la stanza.

– Allora lo guardi, é quello là.

Il vecchio seguì lo sguardo verso un angolo buio della stanza, c’era un bambino di forse cinque anni seduto davanti al camino. Sarebbe stato un bel bambino moro e rosato se non avesse avuto un braccino abbandonato lungo il fianco, mentre con l’altra manina faceva andare avanti e indietro un carrettino giocattolo.

– Il bambino non sta bene? – chiese don Vito rintracciando il vago ricordo di un battesimo a cui non era potuto andare perché c’era la raccolta delle nocciole.

– Il bambino é nato con un braccino morto. – disse asciutto il fantasma, e lo disse girandosi a guardarlo senza un’espressione particolare, ma con un tono che gli fece salire un brivido sulla schiena.

Si voltò a guardare Enzo mentre questi si rivolgeva alla moglie con quel tono conciliante che spesso usava anche con lui.

– Amore, lo sai che per Giovannino nessuno può far niente, lo dice anche il dottor Viola….

– Non è vero! – lo interruppe lei accompagnando il tono isterico con il lancio irritato di uno straccio. – Il dottor Viola ha detto che QUI, – e lo disse come fossero tutte maiuscole – non si può fare niente, ma a Roma forse potrebbero fargli delle cure.

– Ma io a Roma non posso andare, non me lo permettono le risorse che abbiamo e non me lo permetterebbe zio, mi licenzierebbe se me ne andassi per un lungo periodo.

– Ecco, vedi? Se tuo zio ci aiutasse, se fosse comprensivo, forse per Giovannino vi sarebbe qualche speranza… – e si lasciò sfuggire un singhiozzo nascondendo il viso nello straccio recuperato sul tavolo.

Don Vito si tirò indietro dalla finestra, sentiva che era una sua responsabilità, non aveva avuto moglie, non aveva avuto figli, gli restavano solo quei nipoti, e lui non poteva tirarsi indietro. Fece per cercare la porta, mentre si rivolgeva al fantasma.

– Io non sapevo, – si giustificò – ma a tutto c’é rimedio, ora gli dico che li aiuterò, Enzo può scrivere anche da Roma, anzi, gli troverò dove stare, gli troverò il medico.

E mentre cercava di afferrare la maniglia si rese conto che gli scappava di mano, era come d’aria. Il fantasma gli poggiò la punta del frustino sulla spalla, ancora gelo a quel tocco, e gli parlò con quella voce che lo impauriva.

– Non é ancora accaduto, ma accadrà a breve. Se ti sei pentito ora sai come rimediare.

Don Vito non fece in tempo a girarsi che tutto era sparito e lui era di nuovo nella sua camera.

Si concesse un lungo respiro, si era quasi abituato a quei viaggi fantastici, e si chiese che cosa lo avrebbe atteso ancora dietro la porta di castagno.

Fu esaudito dai tre rintocchi che seguirono, e dall’uscio che si aprì senza che nessuno bussasse.

Don Vito si era fatto coraggio, la visione del nipote gli aveva sbattuto in faccia quella che era la realtà: tutti lo odiavano, ma per colpa sua, e mentre assorbiva una certezza che fino a quel punto era stata un alibi per rendersi ancora più odioso al prossimo, fu raggelato dalla nuova visione che gli si parò davanti.

Era una figura alta, magra, tutta bardata in una veste nera, con un cappuccio che gli copriva il volto. Si vedevano solo due occhi fatti come piccole braci azzurre, che lo fissavano dal buio sotto il cappuccio.

– Sei il fantasma del Ferragosto futuro? – chiese con uno slancio di coraggio che gli sarebbe passato subito perché il fantasma allungò una mano scheletrica ed indicò l’uscita della stanza. Don Vito non se la sentì di replicare, seguì quella mano orribile ed attraversò la soglia, entrando in un banco di nebbia più fitto dei precedenti.

Camminò nella nebbia dietro alla veste nera per alcuni passi, poi si ritrovò all’aperto, nella luce del crepuscolo. Era in un cimitero. Per la precisione in cimitero del paese, riconobbe la vista sul mare, mentre il sole tramontava, e sentì un singhiozzo trattenuto. Si diresse verso il rumore, con il mostro sempre davanti, e vide Enzo che fissava una lapide. Aveva la fascia nera al braccio, con un fazzoletto si asciugava una piccola lacrima, e poggiava l’altra mano sul marmo.

– Giovannino! – fu il primo tremendo pensiero del vecchio, che superò di corsa il fantasma per andare verso il nipote.

– Non volevo Enzo, non volevo proprio! – si giustificava perché forse il bambino si era aggravato e si sentiva responsabile. E mentre cercava di abbracciare il nipote che gli sfuggiva tra le mani come nelle visioni precedenti, l’occhio gli cadde sulla lapide:

Qui giace Don Vito Ruggiero

14 agosto 1912

Eccola là, la sua lapide, non quella di un bambino innocente. Morto la vigilia di Ferragosto del prossimo anno. Don Vito non si sentiva più le gambe e senza accorgersene si accasciò sulla terra fresca, mossa da poco per deporre la sua bara.

-Tranne quella di Enzo, Non ci sono corone sulla tomba. – disse più a se stesso che al fantasma che lo accompagnava, – e non ci sono lumini… Nessuno mi piange.

Ma non proprio nessuno, perché il nipote, che non lo vedeva, singhiozzava piano. – Ho perso un altro padre. – disse nei sussulti, e don Vito fu sconvolto da quell’affermazione quasi peggio che dalla vista della sua tomba.

Guardò verso il fantasma sapendo che non gli avrebbe parlato, ma sperando che comunque in qualche modo gli avrebbe risposto.

– É il futuro giusto? – disse trattenendosi dalla voglia di prendere quell’ammasso di stracci funebri e scuoterlo. – io lo posso cambiare? – era una preghiera mista alla domanda ed ottenne una tacita risposta. Il fantasma mosse la testa su e giù, a confermargli che si, il futuro ancora non era accaduto, il futuro si poteva cambiare.

– Grazie, – disse sentendosi all’improvviso sollevato, e continuò a ringraziare mentre, come già avvenuto in precedenza, la nebbia lo avvolse e si ritrovò nella sua camera da letto, nel suo palazzo semivuoto, nel suo paese, Maranola.

Don Vito era seduto sul letto, non sapeva dire per quanto tempo fosse rimasto così, dovevano essere le quattro e mezza perché i galli si erano cominciati a svegliare.

Andò verso il catino con l’acqua e si sciacquò il viso, riviveva nella sua testa ogni attimo di quel sogno bizzarro. Era stato lunghissimo, e così vivido, lo aveva spaventato. Mentre prendeva l’asciugamano logoro e si asciugava continuando a ripetersi che era stato un incubo, gli occhi gli caddero sul fucile, ancora per terra, e non sotto il suo letto dove avrebbe dovuto stare, ed su un carretto giocattolo, come quello della Madonna, ma in miniatura, poggiato sopra il comò.

Fece un lungo sospiro, pensò a Nino, pensò alla fortuna che aveva avuto, e prese una serie di decisioni.

Finì di radersi e vestirsi alle cinque, come segnalava la campana della chiesa, poi uscì e prese il carretto, mentre vedeva che il paese si svegliava e si dirigeva nei campi, come aveva previsto.

Arrivò alla piana che già avevano iniziato il lavoro, e non ci mise molto a individuare il mezzadro del giorno prima, Carmine Macaluso.

– E voi che ci fate qua? – Chiese da sopra il carretto.

L’uomo divenne di una sfumatura leggermente grigia sotto l’abbronzatura di chi vive all’aperto, si tolse il cappello e istintivamente si asciugò il sudore che gli colava dalla fronte non solo per il caldo.

– Abbiamo iniziato dalla parte bassa così poi siamo più vicini al paese. – disse mangiandosi un po’ le parole.

– Ma oggi é Ferragosto! – rispose Don Vito tirando fuori un sorriso che voleva essere bonario, ma che fu terrorizzante per il suo contadino, che lo fissò interdetto.

– Alle otto c’è la processione. Non può mancare nessuno, chiama tutti e digli di tornare a casa dalle loro famiglie.

Carmine rimase immobile, era sicuro di non aver capito bene, e lo disse.

– Scusate, credo di non aver capito. – e lo disse con una vocina sempre più bassa.

A don Vito venne da ridere, aveva trovato un buon umore che non possedeva da tanto, troppo, tempo.

– Carmine, hai capito benissimo, oggi non si lavora, é festa. I pomodori aspetteranno. Ora chiama tutti e digli di passare qui prima di andarsene a prendere un cocomero. – E con un colpo secco scoprì il contenuto del carretto: cocomeri maturi ed ammucchiati uno addosso all’altro come palle di cannone.

Il mezzadro da grigio era diventato rosso, capì che non avrebbe dovuto chiedere ancora e perdere tempo e nel giro di qualche secondo tutti sapevano che don Vito non solo gli abbonava la giornata, che sarebbe stata pagata comunque, ma gli regalava pure un cocomero. Una notizia sconvolgente. Quando anche l’ultimo contadino fu andato via don Vito riprese la strada del paese e si fermò in piazza, perché il carretto non passava per il vicolo dove abitava il nipote, almeno non il suo che non era fantasma.

Aveva mandato avanti Macaluso, che aveva l’asino, con tre casse di roba da portare appunto a casa del nipote, erano giusto pochi minuti prima dell’inizio della processione.

Lo trovò sulla porta che stava uscendo insieme a tutta la famiglia, la moglie teneva per la mano buona Giovannino, che quando lo vide si nascose subito dietro le gonne.

– Zio! – gli disse Enzo venendogli incontro – é passato Carmine, ma credo ci sia stato un errore, lui ha voluto lasciare la roba, ma vedo che sei venuto tu a riprenderla…

Anche qui don Vito non poté fare a meno di ridere e la sua risata produsse la stessa reazione tra i presenti, ovvero sgomento e un po’ di panico.

– Ma Enzo, nessun errore, é un presente per festeggiare Ferragosto! Anzi adesso andiamo tutti alla processione, poi andiamo insieme a mangiare a casa, e poi parliamo di cose serie, ti piacerebbe andare a vivere al palazzo sul mare? Non mi piace più che sia vuoto, ma non subito, prima dobbiamo capire che possiamo fare per Giovannino, – e gli allungò una caramella che aveva comprato in piazza, poi prese il cartoccio e lo distribuì al resto dei bambini, che si erano avvicinati alla vista delle inconfondibili carte colorate.

Enzo e la moglie lo guardarono come lo aveva guardato il mezzadro, e il resto del paese ad ogni saluto e sorriso che aveva distribuito quella mattina, ma don Vito non se ne diede pensiero, perché sapeva che si sarebbero abituati.

Intanto passava il carro con la statua della Madonna, e gli sembrò di riconoscere quel fazzoletto colorato con le frange che si muoveva al collo del conducente, mentre si incamminava e sentiva la moglie di Enzo, con una voce che non era poi così stridula, che diceva al marito:

– Miracolo.