La ferocia di Giuditta


Ma l'arte serve? / venerdì, Ottobre 7th, 2011

Feroce. Ecco l’aggettivo che mi viene in mente mentre vedo Giuditta che, sostenuta dalla sua serva, taglia la gola a Oloferne, spietato condottiero assiro che assedia la sua città e che ha tentato, con evidente insuccesso, di sedurla.

Un quadro che viene paragonato a quello del più famoso Caravaggio perché ritrae la stessa scena, molto diffusa nella storia dell’arte, in modo inedito e sorprendente per l’epoca. La novità è la violenza, lo spruzzo di sangue che invade gli occhi dello spettatore, il tutto abbinato ad una figura femminile elegante, che brandisce l’arma di un guerriero.

Ma la novità è anche che sia una donna a dipingere un quadro del genere. Artemisia Gentileschi, figlia di Orazio e forse per questo ammessa all’arte totalmente maschile della pittura, rappresenta insieme una donna che si emancipa e che si difende dalle ingiustizie della Società. Disonorata dal pittore Agostino Tassi, non esita a denunciarlo e a raccontare la violenza, che paradossalmente la emancipa, rendendola una donna che si sposerà solo per convenzione e vivrà autonomamente la propria vita perché non avrà più un onore da difendere.

Per una parte della critica in questo quadro Artemisia si autoritrae esprimendo la rabbia verso l’aggressore ed il suo desiderio di vendetta. Ma il significato biblico della rappresentazione è molto meno personale. Giuditta infatti si macchia di un omicidio politico, necessario per salvare il suo popolo dall’invasore, non attua una vendetta, ma segue la volontà di Dio e compie un gesto di giustizia.

La giustizia in questo caso è rappresentata senza pietà e dove non c’è pietà c’è ferocia. Questa immagine fa venir voglia di indagare sul limite tra coraggio, determinazione e crudeltà. Se Giuditta lo avesse avvelenato sarebbe stato sicuramente meno cruento, ma altrettanto efficace. Sarebbe stato più femminile, perché le azioni violente non appartengono al sentire delle donne. O forse no.

Forse il luogo comune della pietà non appartiene al “genere”. Perché scegliere di sopraffare così fisicamente per ottenere il proprio scopo implica la mancanza di empatia, l’allontanamento dall’azione che si compie. E lei si scosta, per non macchiarsi, perché non prova piacere da quello che fa, ed il sangue non si lava, come quello sulle mani della moglie di Macbeth. Ma agisce per ristabilire un ordine, per vincere contro un nemico che sa non avrebbe avuto pietà di lei. Così la ferocia non è più crudele, la ferocia è a volte avere il coraggio di rassegnarsi al proprio destino.

2 Commenti a “La ferocia di Giuditta”

  1. Che l’uccisione di Oloferne sia cruenta risponde a una precisa esigenza e a una situazione culturale ben precise. La situazione culturale: fino al XX secolo, buona parte del mondo civilizzato aveva quotidianamente a che fare con la morte in funzione della propria alimentazione (la caccia, la pesca, l’uccisione di animali d’allevamento); queste attività ora sono quasi esclusivamente delegate a personale specializzato e non più un’esperienza comune. Non si uccide più il vitello grasso, lo si compra al supermercato. Ma, ai tempi di Giuditta come a quelli di Artemisia, uccidere una bestia o uccidere all’arma bianca un essere umano in guerra – e quindi provare tutte le sensazioni di orrore e di potere che questo comporta a seconda dell’individuo – erano attività quotidiane. Se le donne forse erano escluse dalla guerra (eccetto come vittime), non lo erano certo dalla vita agricola, quindi avevano esperienza diretta dell’atto dell’uccisione. La precisa esigenza: posto che l’episodio biblico di Giuditta abbia un riscontro storico (la cosa non è certa, anche se la situazione raccontata dalla Bibbia è verosimile e, come ho scritto altrove, sembra quasi una moderna operazione del Mossad) l’obiettivo non è solo di uccidere il comandante delle forze nemiche dopo averlo attirato in una “trappola al miele”, ma anche quello di decapitarlo e, contrabbandata la sua testa fuori dal campo nemico – esporla sulle mura della città a scopo intimidatorio… l’equivalente all’epoca dell’uso dei media. Da questo punto di vista, quindi, Artemisia compie un atto di vendetta attraverso l’opera d’arte, in cui però la morte del nemico diviene una necessità storica ancor più che un atto di brutale giustizia privata.

  2. La Giuditta e Oloferne esiste in due esemplari: uno, più tardo e di dimensioni più importanti, realizzato agli inizi degli anni Venti del Seicento e conservato nella Galleria degli Uffizi, e un altro dipinto intorno al 1612 e conservato a Napoli nel Museo Nazionale di Capodimonte.I due quadri sono del tutto simili, fatta eccezione per i colori delle vesti delle due donne e per le dimensioni: quelle più grandi dell’esemplare fiorentino fanno sì che la scena si faccia più cupa e che l’osservatore possa apprezzare per intero la figura di Oloferne.Roberto Longhi in un suo famoso saggio del 1916, Gentileschi padre e figlia. La freddezza e l’impassibilità di Giuditta, il suo sforzo nel tenere ferma la testa di Oloferne, il generale che a sua volta tenta di respingere la serva che aiuta la protagonista a decapitare il nemico: il tema era già stato affrontato, con la stessa violenza, da Caravaggio, ma la tela proposta da Artemisia Gentileschi assume anche una connotazione autobiografica, che non è la violenza subita come ha sostenuto Anna Banti ma credo sia una rivolta del femminile verso una società declinata al maschile, concetto che deve essere stato chiaro nella mente della piccola Artemisia l’11 settembre 1599, allorché assiste con il padre Orazio e Caravaggio all’esecuzione ,per decapitazione ,di Beatrice Cenci

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