La questione del tartufo


Ufficiosamente / lunedì, Ottobre 28th, 2019

Oggi mi appresto a discutere di un argomento più difficile delle unioni civili, del ruolo del fascismo nello sviluppo dell’Italia o dell’esistenza di una vita aliena: come è meglio mangiare il tartufo bianco.

Questo perché il tartufo bianco o lo si odia o lo si ama alla follia, non c’è una via di mezzo. Quelli che lo mangiano senza entusiasmo, che lo ripugnano senza averlo mai veramente incontrato o che si ritengono troppo talebani per affrontare un dialogo sereno sono pregati di interrompere la lettura perché gli argomenti che seguiranno saranno veramente caldi.

Partiamo dal primo assioma: se il tartufo non lo cucini bene si rovina ed è un peccato di Dio. È la prima cosa che ti insegnano quando lo guardi poggiato là, su un tovagliolo messo su un vassoio, magari coperto da una cupoletta di vetro trasparente, insieme alla sua famiglia di tartufetti più o meno grandi, e al cartellino del prezzo, di solito scritto a mano in numeri che messi uno vicino all’altro ti mettono sempre un certo disagio.

Il secondo assioma è che la morte del tartufo bianco è con: riso e parmigiano, pasta all’uovo lunga con burro, uovo al tegamino cotto nel burro. È la trinità delle ricette e non va messa in discussione.

Il terzo assioma è che se lo sprechi è un peccato di Dio. Va tagliato e distribuito in modo da non lasciarne neanche la più piccola briciola in giro, neanche l’odore deve rimanere alla fine del pasto, tutto va mangiato e tutto va assaporato.

Se quindi su questi tre principi siamo generalmente tutti d’accordo, i problemi veri arrivano quando ci dedichiamo al modo di applicarli. Anche perché il tubero si presta alla convivialità, spesso si compra con una colletta per prenderlo più grosso, e così le scelte diventano complesse e decisive come i voti parlamentari.

Ma andiamo con ordine: il taglio. Il purista ritiene che per garantire il primo e terzo assioma sia necessario l’apposito utensile tagliatartufi. Una piccola lama fissata ad un manico che sembra innocua, ma che può tranquillamente tagliare le dita insieme al tubero celestiale se non si ha mano ferma e tecnica. Inoltre è un oggetto che nelle case normali viene usato se va bene, ma proprio bene, due volte l’anno, quindi raramente lo si trova. La mancanza del tagliatartufi dedicato costringe spesso a cercare un’alternativa ingegnosa, c’è chi usa il lato per affettare della grattugia a scatola, oppure chi si affaccenda con coltelli che sono sempre di fortuna. Tralasciamo la questione del coltello, che mi crea un disagio emotivo notevole, anche perché è come l’assunzione di droghe leggere, tutti negheranno di averlo mai fatto ma almeno una volta, a una festa, è capitato di non resistere alla tentazione e provare il brivido di una trasgressione che rimane circoscritta in quel momento.

Il problema della grattugia, però, è che non garantisce, a meno di non possedere un polso molto mobile, uno spessore sottile, e qui entriamo in un’altra questione importante: lo spessore della fetta. I puristi ritengono che se non è tagliato sottilissimo è come una poesia troncata a metà verso, si intuisce il significato e la musicalità, ma non si è sicuri poi di come potrebbe andare a finire. Altri ritengono che l’importante sia affettarlo, ma tra questi una nutrita parte è di quelli che userebbero pure il coltello a seghetto quindi è difficile continuare a parlare con loro.

Una volta deciso “come tagliarlo”, bisogna decidere “con cosa si mangia” il tubero. La difficoltà qui è che, di solito, un altro problema è che sembra sempre poco. Guardi questo sassetto di terra color terra che sa anche un po’ di terra e dici dentro di te con più ansia di quanto vorresti: ma basterà per tutti?

Di solito, a questo punto, la presenza di uno che “non ama l’odore” o che ha problemi intestinali ed è costretto all’astinenza è considerata un colpo di fortuna senza precedenti. “Uno di meno” è l’inno che tutti mentalmente cantano quando fanno il conto delle teste per cui bisogna cucinarlo. Definito quindi che ci troviamo in democrazia e che non ci sono due persone che lo vogliono nello stesso modo, si arriva di solito alla risoluzione salomonica di procedere ad un taglio popolare: si taglia e si divide nei piatti e ognuno farà quello che vuole con la sua porzione di paradiso.

Anche perché chi lo vuole con il riso non ci vuole l’aggiunta del burro, chi lo vuole con la pasta invece può proporre una variante con l’uovo mentre chi vuole l’uovo è quello che ha meno fame di tutti e si ritiene il più furbo, perché è notoriamente un piatto che neanche lo guardi e già è finito ma sembra che ci sia più tartufo che sugli altri piatti perché non lo devi mescolare.

Infine la durata dell’esperienza. C’è chi mangia pianissimo per rendere quel momento lunghissimo, chi invece si lascia prendere dalla foga e si ritrova a fare la scarpetta, per il terzo assioma, fino a rendere il piatto lucido nel tempo di un amen. Ma tutti sono d’accordo che ne valeva la pena di fare quella cena, di pagare quella cifra, di aspettare un altro anno per rifarlo.

Perché la cosa veramente bella del tartufo bianco è proprio il tempo, il suo essere disponibile solo pochi mesi l’anno, il suo sparire davanti agli occhi in una polvere di sapore e profumo che lo rende simile ad una bolla di sapone o a un bel sogno. Perché quando lo si mangia ci si rende conto che la vita è una sorpresa che si può assaporare anche grazie a un sasso che non è un sasso, che ha il colore della terra, e forse anche un po’ il sapore.