Storie di pilates


Ufficiosamente / lunedì, Febbraio 25th, 2019

La fine del mondo è vicina, i segni ci sono tutti, grandi cataclismi, orsi polari che si aggirano nei centri abitati, tempeste di fulmini, il reddito di cittadinanza e io che mi iscrivo in palestra, o meglio che penso talmente tanto seriamente di farlo che ho pagato 15 euro per una lezione di prova di pilates. E sono ancora viva per raccontarlo, o quasi.

In breve la storia è così: mi sono fatta vecchia, ho il fiatone quando faccio le scale, o meglio ho più fiatone di prima quando faccio le scale, ho ripreso i chili persi con la dieta di due anni fa e sono circondata da gente entusiasta della vita.

Ma è sopratutto l’entusiasmo che naturalmente mi distrugge, sfascia in modo inesorabile il mio sistema nervoso fatto di continue e ininterrotte insofferenze, noia e fame.

Così finisco in palestra con l’idea di fare 20 minuti sul tapis roulant nell’angolo e mi ritrovo in una stanza in penombra con la musica soft e seduta su una palla.

Che poi, detta così, sembra anche semplice, stare seduti su una palla, invece non avete idea di che cosa voglia dire, altro che Fantozzi e la sua poltrona. Ma andiamo con ordine, partiamo dall’inizio.

A scanso di equivoci e per tranquillizzare la Prima della Classe che già mi guardava male dal suo posto in prima fila, ho comunicato a tutte le presenti che, non solo non avevo mai fatto pilates, ma ero riuscita ad evitare la palestra per tutta la mia vita, quindi ogni cosa era nuova e io mi sentivo molto fuori posto.

Rasserenata dall’aver chiarito subito la situazione e fugato ogni equivoco sulla possibilità che io sapessi cosa stavo facendo o che fossi convinta di farlo, ho iniziato l’attività sportiva che consisteva nell’imitare prima l’istruttrice e poi tutte le altre.

Quindi ho preso il tappetino, come facevano tutte, e ho trovato un bellissimo angoletto nel punto più buio, lontano dallo specchio e da chiunque potessi colpire involontariamente con braccia o gambe e, in quella penombra rassicurante, ho iniziato a fare quello che facevano le altre.

La prima cosa è stata: respirare.

E che sarà mai respirare, il respiro è sinonimo di vita, lo facciamo sempre, ma qui va fatto in un altro modo, per inspirare devo aprire il torace, aprire le costole e poi espirare, ovvero buttare fuori tutta tutta tutta l’aria chiudendo le costole ma tenendo l’ombelico in dentro. Bella per me.

Complice il reggiseno stretto, io queste costole che si aprivano non le sentivo, cercavo di visualizzare, ma quando mi sembrava di riuscire a vedere queste ossicine che si muovevano l’istruttrice iniziava ad aggiungere al respirare altre cose da fare, tipo muovere le braccia, prendere la palla e sedersi sopra, usarla come appoggio e tanto altro.

Senza che riuscissi a comprendere come fosse successo, all’improvviso mi trovavo a dover: controllare che le costole si aprissero per respirare come si deve, muovere qualche arto e posizionarlo nel modo corretto rispetto agli altri e alla schiena e al mento, sentire il movimento dei muscoli e contemporaneamente azzeccare il ritmo di inspirazione e espirazione. E vi ricordo che state parlando con una che sicuramente ha una dislessia latente.

Vista la situazione drammatica in cui mi trovavo, costretta a pensare contemporaneamente almeno 6 cose, ho capito prima di tutto perché a quella lezione non c’erano uomini, è acclarato che possono pensare solo una cosa alla volta, e poi che l’unica cosa veramente importante era non uccidermi con quella palla, che scivolava e tremava sempre nel momento più importante dell’esercizio.

Quindi la palla è stata l’oggetto della mia attenzione per tutta quell’ora lunghissima, fatta di inspira e espira, apri le costole, tieni il piede a martello e soprattutto: non cadere a faccia in avanti mentre ti arrotoli su quell’attrezzo infernale.

Eppure mi sono divertita. Ecco il vero segno della fine dei tempi. Forse è stata proprio quella sensazione di pericolo costante, quasi avventurosa, a creare il giusto mix di adrenalina che mi ha portato a vedere se riuscivo a non procurarmi danni permanenti e a lasciare un ricordo indelebile di me sul parquet della sala. Quel vivere l’esperienza come una sorta di sfida verso l’ignoto che mi ha rilasciato abbastanza endorfine da farmi valutare seriamente un abbonamento open e un impegno di due volte la settimana in un posto che puzza ed è pieno di gente con il sedere piccolissimo.

Ma credo che la vera motivazione per proseguire questa avventura, almeno fino a che non sarò vittima di una distorsione o mi romperò il naso, sia la felpa rosa in tessuto extramorbido che ho comprato per l’occasione: adoro quella felpa, e penso che potrebbe essere una buona occasione per metterla e  magari comprarne un’altra, di un rosa più scuro.