Le insidie della cultura romana


Ufficiosamente / lunedì, Ottobre 6th, 2014

monna-lisa-tempi-tristiRoma è una città piena di insidie, ma non quelle che ci si aspetterebbe normalmente in una metropoli, insidie inaspettate, che si celano dentro locali camuffati da spazi culturali, in eventi che sembrano favori fatti ad amici ed invece diventano piccole trappole intellettuali da cui è difficile liberarsi.

Fino ad ora ero stata brava a schivare il pericolo, ma anche io sono caduta in una di queste trappole, anche se spinta dall’ingenuità e dalla superficialità. Eppure gli indizi c’erano tutti, sono stata io a non vederli, o a non volerli vedere perché la verità mi sembrava troppo assurda per essere, appunto, vera.

Ma andiamo con ordine, mettetevi comodi perché è una storia lunga, purtroppo, e va spiegata bene.

Tutto è iniziato col solito invito dell’ultimo momento “C’è una cosa, è dietro l’ufficio, dai è un amico, sembra brutto non andare”.

Ecco, il “sembra brutto” è una delle trappole peggiori, l’invocazione al senso di colpa e all’educazione che ti spingono ad accettare un invito anche quando il tuo sesto senso ti dice che non sarebbe una buona idea, come nel mio caso.

Così, dopo il lavoro, raggiungo il posto, effettivamente comodo perché in centro, in una strada anzi molto bella, dove mi aspetta un gruppo di persone vario, un paio di coppie con bambini piccoli, un regista famoso, un portiere della Nazionale quando ancora avevano le magliette in nylon e non in tessuto tecnico, l’artista e i genitori dell’artista.

L’artista ci invita ad accomodarci nell’attesa che inizi e io mi ritrovo in un posto buio, con dei divani addossati alle pareti a loro volta coperte da brutte opere, ma non opere del suddetto artista, bensì di altri, a dimostrazione che la brutta arte spesso può essere propinata per procura, non basta essere costretti a vederla dal diretto produttore, come in quel caso.

Interrogato sul suo lavoro, l’artista spiega che le sue opere non sono a quel piano e che ci farà una “performance”. La “performance” è una parola dai mille significati e, per esperienza, non racchiude mai niente di buono, perché se voglio vedere qualcuno che canta o balla vado a teatro, se voglio vedere un quadro o una scultura non ho bisogno di altre esperienze sensoriali. Ma ormai stiamo là, tocca aspettare.

Dopo un aperitivo a base di prosecco e pizza bianca, dove naturalmente non bevo perché astemia e non mangio perché schizzinosa sulla roba tocchicciata da sconosciuti, e dopo che mi sono concentrata su una mattonella del pavimento perché quello che vedo alle pareti ho paura mi faccia venire gli incubi, finalmente l’artista ci invita a salire al piano superiore per assistere alla sudetta “performance”.

Da premettere che all’ingresso mi avevano dato una sorta di invito, un cartoncino spesso e pesante ottimo per fare da ventaglio, visto il caldo improvviso che faceva, decorato con una serie di scritte che io avevo guardato con superficialità, titolo evocativo, citazione di artisti famosi, bla bla bla.

Del resto ero venuta perché “pareva brutto”, mica perché mi interessava.

Torniamo a noi, saliamo al piano superiore, molto suggestivo, una cappella sconsacrata con i soliti divani lungo le pareti e finalmente i quadri del “nostro artista”. Li guardo e penso solo due parole “astratto”e “prevedibile”.

 Guardo queste opere dalla forma quadrata, con fondo bianco, su cui dominano segni di pittura neri. Dico segni di pittura perché l’unica domanda che mi pongo è che tipo di pennello ha usato, perché ha qualcosa di strano, come è strano il mezzo cilindro vuoto posto al lato della tela, come fosse un portapenne.

Mi dispongo in religiosa attesa che passi tutto il più rapidamente possibile, guardo il pubblico, che si siede appoggiando la schiena comodamente sulle opere dimostrando che forse è meno cosciente di me.

Buio, video, e dopo circa cinque secondi mi rendo conto che il “prevedibile” è sostituito da “porca paletta” (a dire la verità l’espressione era un’altra, ma sappiamo che non scrivo parole sconvenienti perché mi legge mia madre, a cui non so se farà piacere sapere dove sono finita, assolutamente non volendo, capito mamma?)

Quindi dicevo, parte il video composto da una donna bionda di spalle su un divano bianco che guarda uno dei quadri dell’artista. La donna non è seduta in modo normale perché si vedono le ginocchia piegate. E si vede che lei si muove un po’. Dopo un tempo infinto in cui  il silenzio religioso è interrotto da un bambino che, giustamente, voleva la pizza bianca e non capiva che cosa facessero tutti gli altri in quel posto, la ragazza si alza, mostra un sedere che non mi sembrava quello della pubblicità di Roberta, e poggia un oggetto nel famoso “portapenne”a fianco al quadro.

Diciamo che avevo capito l’andazzo appena avevo visto la postura della signorina, ma soprattutto quando ho smesso di sventolarmi con l’invito e ho letto, per la prima volta con attenzione, il titolo della performance “Vibrazioni”.

Ecco, tutto ruotava intorno appunto alle vibrazioni provocate da un oggettino che viene venduto in appositi negozi o nelle farmacie, ma con forme differenti, e che serve al “piacere femminile”, o a raggiungere la famosa “grande gioia”, ma solo per le femminucce, o per i maschietti di larghe vedute.

Dal titolo a tutto il resto il collegamento è stato rapido e dolorosissimo, mentre l’artista accendeva la luce, a video finito, spariva dietro un separé e ritornava con una bustina da clochard da cui estraeva, sempre in silenzio, un oggettino colorato per ogni quadro e lo posizionava nell’apposito cilindro in una sorta di processione conclusiva.

Finito questo rito, in cui io mi sono posizionata ben lontana dai quadri e una signora seduta sul divanetto si vedeva mettere in testa l’oggettino, l’artista ha avuto la gentilezza di  spiegare, a chi non lo avesse ancora capito, il suo concetto di “vibrazione” come estasi artistica e sindrome di Stendhal. Man mano che spiegava il silenzio intorno diventava sempre più pesante, gli sguardi iniziavano a vagare da lui, ai quadri, agli oggettini,  alla madre, provvista di amici ai lati, che si sventolava col suddetto invito, mentre il padre si puliva gli occhiali con l’espressione di uno che si trovava là per caso.

Mentre proseguiva nella spiegazione, ho capito perché non sapevo riconoscere lo strumento che aveva usato per stendere la pittura: era appunto il gadget da signora, ognuno diverso a seconda del quadro ed ora ricongiunto con la specifica opera d’arte, nuova concezione di “pennello”.

Ecco quindi cosa succede ad andare agli eventi solo per cortesia, ti presentano l’arte come una bistecchina ai ferri condita male e ti dicono che stai per mangiare un filetto, o peggio, ti propinano oggetti che si prestano ad un’infinità di doppi sensi e tu non puoi scrivere un articolo scurrile come si meriterebbero.