I viaggi della speranza, ovvero prendere un autobus a Roma


Ufficiosamente / venerdì, Settembre 27th, 2013

Immagine 468Io nell’animo sono plebea, ho origini contadine che si esprimo in modi bizzarri, come l’amore incondizionato per le cipolle, la conoscenza delle diverse varietà degli alberi e l’abitudine di prendere l’autobus, mezzo dei poveri e dei semplici per eccellenza.

In un’era dove si predica la sostenibilità, dove dovremmo tutti trovare dei modi per inquinare meno, l’autobus viene considerato, anche se non lo dirà mai nessuno ad alta voce, il mezzo di chi la macchina non se la può permettere.

Luogo degli sfigati, purgatorio di chi non ha la possibilità di muoversi autonomamente, rappresenta un ambiente promiscuo in cui si incontrano loschi figuri che vogliono derubarci, a volte molestarci, gente che puzza, gente che ha problemi di tutti i tipi.

Eppure io lo prendo da più di un decennio. E lo so che, viste le premesse, questa cosa potrebbe non deporre bene a mio favore.

Io lo prendo perché sono incapace di guidare la macchina, il motorino mi fa paura e la bicicletta mi fa fatica. E forse perché sono troppo pigra per riuscire a pensare di dover provvedere a non uccidere nessuno, al parcheggio, alla sua manutenzione o peggio: alla sua pulizia. Così mi affido sempre a qualcuno che “mi porti” dove devo andare, e in certe condizioni so accontentarmi anche di un autobus del servizio pubblico romano.

Ma signori miei, devo dire che accontentarsi di questi servizi dimostra grande spirito di sopportazione oltre che ottimismo e buon carattere.

In anni e anni di frequentazione di quelli che romanamente vengono chiamati “i mezzi”, ho visto un po’ di tutto, eppure devo dire che c’è sempre qualcosa che mi stupisce.

Non voglio parlare dei frequentatori, ovvero la varia umanità con cui ho diviso caldo, freddo, cattivo odore o spinte, ma degli autisti, coloro che hanno potere di vita e di morte sul nostro tempo, coloro che decidono se noi torneremo a casa o arriveremo in orario al lavoro, perché una volta varcata la soglia di quelle porte automatiche la nostra vita è senza ombra di dubbio nelle loro mani.

Letta così, da chi un autobus non lo ha mai preso, può sembrare esagerato, ma sono sicura che i frequentatori abituali dei mezzi di Roma converranno con me che prendere un autobus può essere l’equivalente di una vincita alla lotteria o di una grattata sfortunata al gratta e vinci.

La partita col destino inizia alla banchina, ovvero quando ci si avvicina alla palina (cfr. quel cartello giallo dove dovrebbero essere segnati gli autobus e le fermate e che di solito ospita scritte ed adesivi che ci tengono compagnia nell’attesa). Alcuni punti della capitale hanno delle paline elettroniche che dovrebbero rassicuraci sui tempi di percorrenza, farci sapere tra quanti minuti arriverà il nostro autobus e permetterci di vivere con serenità quel tempo di attesa, che molto volentieri oscilla tra i venti e i trenta minuti. Ma non voglio essere diffamatoria, esistono delle linee speciali che dovrebbero passare tra i tre e i cinque minuti, quelle partono da dieci minuti, che nell’ottica della situazione sembra un lasso di tempo assolutamente accettabile. Questo se la tecnologia ci assiste e il cartello elettronico funziona, altrimenti tocca guardare uno schermo tristemente spento o peggio, un beffardo autobus di lampadine che cammina senza sosta, e dove va non è mai chiaro, ma sicuro non dove siamo noi.

La risposta a questi ritardi sulle tabelle di marcia sembra scontata in una città caotica come questa: è il traffico! Le macchine in doppia fila, i pedoni disordinati, le altre macchine che non rispettano le regole e occupano le corsie preferenziali.

Ora, ritengo che tutte queste cause siano plausibili, viste da fuori, ma ad una come me, che più di una volta ha incontrato autisti che sbagliavano strada, si avete capito bene, che non sapevano dove dovevano andare, un dubbio ogni tanto viene. E’ sempre interessante guardare i passeggeri che si accorgono che l’affidabile guidatore ha sbagliato strada, di solito muoviamo tutti insieme la testa dai finestrini alla postazione di guida e di solito c’è il mal capitato che ha perso la fermata e che non la rivedrà più che corre disperato per cercare di scendere in qualche modo. Ma non è detto che ci riesca perché dipende da quale strada si sbaglia. Se si ha sfortuna, non si torna più indietro e si saltano svariate fermate, in quel momento si capisce cosa si prova quando si viene rapiti, sarà infatti il conducente a decidere il momento di fermarsi. Se si ha fortuna, si ritorna indietro e si perdono quei quindici, venti minuti che ci verranno detratti dalla busta paga per il ritardo al lavoro.

Ho il ricordo di una dolce serata estiva in cui l’autobus era semivuoto e filava veloce sulle strade poco trafficate quando il silenzio sull’automezzo venne interrotto dalla voce squillante dell’autiere che chiese se qualcuno conosceva la strada per tale piazza, perché lui non ci sapeva arrivare. Ci siamo guardate io e la signora filippina, occupanti appunto del mezzo, e ho capito che se volevo tornare a casa dovevo dirgli io come arrivarci. Così gli ho indicato la strada fino alla mia di fermata e poi ho augurato alla filippina buona fortuna.

Ho scoperto poi che i capolinea si spostano da soli, senza che gli utenti vengano informati, come il magico castello di Howl. Giusto stamattina ho cercato il bus che prendo ora per andare al lavoro al solito capolinea ma non c’era nessuno, sono arrivata alla piazza successiva, dove dovrebbe esserci solo la fermata, e ho trovato un mezzo fermo. Ho pensato fosse guasto, sono salita e ho chiesto all’autista se quell’autobus partiva. Il signore mi ha guardato come se scendessi dalle nuvole e mi ha detto “Questo è il capolinea, certo che parto”. Io ho avuto un attimo di esitazione, ho guardato la palina e indicava il capolinea dove dicevo io. Mi sono rivolta al conducente ancora più confusa “Ma avete cambiato il capolinea?” ho chiesto ingenuamente e lui ha risposto ancora più scocciato “Signorì, ma non lo vede quanto è grosso questo? Per quel capolinea io non c’entro in quella strada”, che tradotto è: “I bus usati sulla linea sono elettrici e di piccole dimensioni, adatti al capolinea che è stato indicato, oggi quel bus non è disponibile e quindi io autiere di buona volontà mi fermo qui, posto più vicino a quel capolinea (cfr. 3 fermate prima, dove nessuno potrebbe mai vederlo se non sa che sta là) e parto seguendo gli orari precisi”. Appunto, segue gli orari precisi, ma da un altro posto.

Ho guardato rassegnata i sedili vuoti, mi sono seduta in quello che mi piaceva di più ed ho pensato a che, per quel giorno avevo vinto il mio gratta e vinci, il passaggio fino alla piazza,  mentre altri molto più sfigati di me stavano grattando senza sapere di non avere speranza, tanto l’autobus delle 8.37 sarebbe passato da un’altra parte.

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